
Il patto leggero continua
Il patto leggero continua
Milano, il rientro e l’idea folle
La sera del rientro, Milano aveva l’aria lucida delle città dopo il temporale. Giovanna si tolse lo zaino con un sospiro; le dita di Luigi le sfiorarono la spalla, un contatto breve, complice. «Allora?» chiese lui. «Hai portato a casa un po’ di vento?»
«Un tornado di vento» rispose lei, ridendo. Cecilia, seduta sul tappeto con le gambe incrociate, stava già svuotando la Polaroid: scatti di creuze, cornicioni, biciclette appoggiate a muretti, ombre che sembravano disegnate da un regista. Quel viaggio non le aveva cambiate in qualcosa di urlato; aveva solo regolato la luce interiore, come quando si sposta una lampada di pochi centimetri e all’improvviso tutto acquista un senso.
«Facciamo una cosa» propose Cecilia, con quella sua energia creativa che Giovanna le invidiava da sempre. «Raccogliamo i suoni del viaggio e li montiamo in un’audio-storia. Un percorso sensoriale. Il nostro modo di dirci grazie: per la complicità, per la libertà, per i segreti gentili.»
Giovanna annuì: «Una traccia che comincia col rumore dei binari e finisce con la risata del giardiniere di Nizza. Nel mezzo, la nostra voce. Non quella di servizio, non quella del turno al Telefono Erotico. La nostra.»
Luigi batté le mani piano, senza invadere. «Vi aiuto a montarlo. E lo presentiamo in terrazza, con gli amici. Una serata d’estate fuori stagione.»
La terrazza come teatro
La terrazza del loro palazzo guardava i tetti come un piccolo belvedere segreto. Luigi sistemò lucine a ghirlanda, due casse, un proiettore per le foto – niente volti, solo dettagli: un libro piegato, il gomitolo di un pareo, un biglietto ferroviario conservato come amuleto. Cecilia appese un lenzuolo bianco al corrimano; Giovanna preparò limonata alla lavanda imparata in Provenza.
Scelsero anche una regola nuova per quella serata: vestiti morbidi, leggeri, nessun eccesso, e un gioco minuscolo – non l’underwear-free challenge che aveva accompagnato il viaggio, ma una sua eco simbolica. Ognuno degli invitati avrebbe portato un oggetto che rappresentasse una libertà piccola e personale: un laccetto di scarpe, una spilla, il bordo di un foulard. «Chiameremo la serata Linea di Aria» propose Cecilia.
Giovanna si guardò allo specchio. Avrebbe potuto forzare la mano, portare sul terrazzo quell’ebbrezza di esposizione, ma non sarebbe stata lei. La sua intimità migliore restava quella dei dettagli: il tono della voce che scivola, il gesto di allungare la mano senza prendersi tutta la scena. È lo stesso talento che le faceva amare – e talvolta temere – il lavoro al Telefono Erotico: la capacità di affiorare nella fantasia altrui con pochi tratti e poi ritirarsi, come il mare quando lascia conchiglie sulla riva.
Quando arrivarono i primi amici, Cecilia prese il microfono. «Stasera ascolterete un viaggio in dieci tracce. Non è un podcast, non è un reading. È un brindisi ai segreti gentili. Chi vuole può raccontare, a fine ascolto, la sua piccola libertà.»
Luigi fece partire l’audio: i binari – clac, clac – un soffio di vento, una voce di controllore lontana, la ruota della bici che striscia sul pietrisco, il vociare di un mercato di Marsiglia, e poi la risata improvvisa di Cecilia, quella vera, quella che Giovanna riconosceva anche tra mille.
Le voci e gli sguardi
La traccia tre conteneva due minuti preziosi: Giovanna e Cecilia sedute sul muretto di Genova, a dirsi cosa le teneva in piedi nei turni più complicati. «La gentilezza della curiosità» diceva Giovanna. «Quando dall’altra parte non c’è solo desiderio cieco, ma quell’ascolto che ti salva. Anche al Telefono Erotico, a volte, accade. L’asticella tra immaginazione e rispetto è una linea sottile, ma quando c’è, ti senti al sicuro.»
«E quando manca?» chiese la voce registrata di Cecilia.
«Si ricordano i confini» rispondeva Giovanna. «E si chiude la porta con grazia.»
Gli amici ascoltavano in silenzio. Nessuno rideva, nessuno arrossiva; gli sguardi si scambiavano come tessere di un mosaico. Era una festa senza clamore, una festa come certe passeggiate notturne in cui si parla a bassa voce per non svegliare i gatti sui motorini. Alla fine della traccia cinque – il fruscio dell’amaca nel giardino provenzale – Vittoria, una vicina al terzo piano, sollevò il suo oggetto: il nastro che legava la scatola in cui teneva vecchie lettere. «La mia libertà è aprire e chiudere senza dover buttare. Conservare, ma non aggrapparmi.»
Il tram notturno
A serata finita, Giovanna e Cecilia scesero in strada. «Giro sul 10?» propose Cecilia, indicando il tram che attraversa Milano come una cucitura luminosa. Salirono con la leggerezza di chi ha messo in circolo un pezzetto di sé. Sedettero su due posti singoli, una davanti all’altra, separate da pochi metri. Non avevano più bisogno di sfide audaci: bastava il tremolio di una lampadina nel vagone per ritrovare il brivido dell’ignoto.
Il tram ondeggiava tra i viali; le vetrine dei bar riflettevano i passeggeri come in una pellicola silenziosa. Giovanna osservò una ragazza con la giacca di jeans che teneva in mano un libro sottolineato. Le venne voglia di dirle: «Le sottolineature sono la tua mappa segreta?» ma rimase in silenzio. Aveva imparato dal viaggio che non tutto va pronunciato; alcune parole si custodiscono meglio se restano un’intenzione sul bordo delle labbra.
Cecilia le scrisse un messaggio: «Mi manca già la Corniche».
Giovanna rispose con un’emoji di bicicletta e una di onde. Poi le venne un’idea. «Facciamo un progetto nuovo. Registriamo i tram notturni, le scarpe che camminano, le fermate vuote. E ci infiliamo dentro piccole storie: incontri immaginari, carezze che non succedono, inviti a una gentilezza che nessuno pretende ma tutti desiderano.»
«Lo chiamiamo Percorsi Sussurrati» propose Cecilia. «Sottotitolo: da Linea Erotica a linea di città.»
Giovanna rise: «Useremo anche frammenti di Sesso al Telefono – non quello ovvio, quello fatto di pause, sospiri, parole che sanno fermarsi. L’erotismo del quasi.»
Turni nuovi, confini chiari
Il mattino dopo, i turni ripresero. La routine tornò in calendario: cuffie, schermate, la scheda dei clienti abituali, la chat con le colleghe. Eppure qualcosa nel modo di stare al mondo era cambiato. Giovanna aprì il suo turno con la calma di chi ha ricordato a se stessa di essere più del mestiere che fa. La prima chiamata fu un uomo timido; parlava piano, incespicava sulle parole.
«Nessuna fretta» disse Giovanna con voce bassa. «Dimmi cosa ti fa sentire bene e cosa preferisci evitare. Qui la regola è una: ci si ascolta, e quando una cosa non va la raddrizziamo insieme.»
Lui tirò un sospiro che pareva sciogliere settimane di imbarazzo. «Vorrei… immaginare una passeggiata sotto la pioggia. Posso?»
«Puoi» rispose Giovanna. «Puoi tutto quello che rispetta la nostra pelle e i nostri pensieri. Anche immaginare che, a un certo punto, ci fermiamo sotto un portico e parliamo del profumo dell’aria.»
Quella chiamata non fu la più lunga, né la più remunerativa, ma lasciò entrambe le voci con una serenità rara. Giovanna, a fine turno, scrisse a Cecilia: «Ho usato il metodo Corniche: pedalare piano, guardare il mare, ricordare che anche la fantasia respira.»
Una proposta che brilla
Passarono due settimane. La serata in terrazza aveva acceso curiosità: un amico di un amico, curatore di un piccolo spazio culturale in zona Stadera, propose di ospitare un loro ascolto guidato. «Niente volgarità, niente ammiccamenti. Solo il percorso sonoro. Lo chiameremo “La gentilezza della fantasia”.»
Cecilia spalancò gli occhi, felice. «Portiamo anche qualche pagina letta dal vivo» disse. «Non confessioni, ma appunti. Io leggerò i miei taccuini, tu i tuoi pensieri – quei frammenti che scrivi quando finisce un turno e non sai se hai voglia di dormire o di preparare la colazione.»
Giovanna fu d’accordo, con una condizione: «Vorrei aggiungere una sessione minuscola sul tema dei confini. Troppo spesso si crede che la fantasia sia un treno senza binari; invece è un giardino, e i sentieri servono a non calpestare i fiori.»
La sera dell’evento, lo spazio era raccolto e accogliente. Arrivarono persone diverse: studenti, una signora con i capelli corti e la borsa rossa, un libraio della via accanto, due ciclisti con la catena ancora oliata. Luigi stette dietro al mixer con la sua discrezione solita.
Cecilia aprì la serata con una domanda: «Qual è la vostra piccola libertà che non fa rumore?» Le risposte furono un mosaico: «Mettere il telefono in modalità aereo a cena», «Scrivere cartoline e non spedirle», «Collezionare parole nuove e usarne una a settimana».
Ascolti e rivelazioni
La traccia sei, Notte sulle rotaie, cominciava con un dettaglio quasi invisibile: il ronzio elettrico del tram prima che le porte si chiudano. Nelle cuffie sembrava una carezza metallica. Giovanna lesse una pagina breve: una donna che sale senza biglietto, non per furbizia ma perché dimentica le tasche quando si innamora; un ragazzo seduto con due arance nello zaino; un autista che rallenta a una fermata vuota perché una volta, anni prima, lì aveva visto qualcuno piangere. Non succedeva niente di straordinario, eppure la sala tratteneva il respiro.
Alla traccia otto, Il giardino, apparvero le cicale e il vento tra la lavanda. Cecilia lesse i propri appunti: «Non è la mancanza di biancheria a farci libere. È la scelta di non doverlo dire a nessuno, di farne un filo tra me e te, un segreto gentile che profuma di rosmarino.»
Una donna dal pubblico alzò la mano. «Io ho lavorato anni in un call center, non al Sesso al Telefono, ma alla customer care. E riconosco la vostra fatica: modulare la voce, restare presenti, accompagnare.»
Giovanna ringraziò. «In un certo senso, tutto è relazione. Noi abbiamo scelto di farne un’arte dell’ascolto. Il nostro mestiere, quando è fatto bene, non lavora contro la vergogna: la accarezza, la mette a suo agio, le lascia un posto a tavola.»
Il confine come dono
Arrivò il momento della sessione sui confini. Giovanna prese un gessetto e tracciò sul pavimento una linea curva. «Immaginate che qui ci sia una soglia. Non è un muro: è un invito a chiedere permesso. Quando il lavoro scivola dall’essere cura all’essere consumo, questa linea s’illumina. Il nostro compito è rispettarla per primi.»
Raccontò di un cliente che scambiava l’attenzione per diritto. «Non è cattivo» disse. «È solo abituato alla frenesia. Gli ho proposto una regola: prima di ogni fantasia, tre respiri in silenzio. E d’un tratto abbiamo riaperto la porta al rispetto. Si può fare anche nella vita: tre respiri, e si ricomincia.»
Cecilia aggiunse: «La fantasia non è sfrontata per forza. Può essere una Linea Erotica di sfumature: un gesto, un profumo, un verbo al condizionale. Noi, nella nostra audio-storia, abbiamo cercato questo: l’erotismo del non detto, l’eleganza della scelta.»
Una notifica inattesa
Dopo l’evento, mentre smontavano, arrivò una mail. Un festival sonoro di fine estate cercava progetti brevi per una rassegna di ascolti urbani. «Vorremmo una traccia inedita di cinque minuti, ambientata in un mezzo pubblico» spiegava l’invito.
«Il nostro tram» sussurrò Cecilia.
«La nostra fermata vuota» aggiunse Giovanna.
Riapparvero in un attimo le ombre dei loro viaggi, le vibrazioni dei binari, la semplicità della sabbia sulla Promenade. Decisero di tornare lì dove tutto aveva preso forma: su un treno regionale, verso il lago, un pomeriggio feriale qualunque. Avrebbero registrato sussurri, passi, la pagina di un libro voltata piano, il fischio lontano di un capotreno. E sopra, la loro voce, non più per mestiere ma per poesia: una dichiarazione di affetto al coraggio gentile.
Il regionale delle cinque
Sedettero vis-à-vis, come al primo giorno del loro interrail. Giovanna aprì il registratore: un click. Cecilia sistemò un taccuino.
«Traccia unica» disse Giovanna. «Titolo: Permesso – Grazie – Prego.»
All’inizio registrarono il nulla pieno: i passi dei passeggeri, un bambino che chiede se il lago è salato, due turisti che si scambiano la bottiglia d’acqua. Poi, piano, lasciarono entrare le parole.
«Permesso è la parola che apre» disse Giovanna nel microfono. «È la mano che non spinge.»
«Grazie è la parola che resta» aggiunse Cecilia. «È un profumo leggero sui polsi.»
«Prego è la parola che restituisce» concluse Giovanna. «È tenere la porta a chi viene dopo.»
Nessun ammiccamento, nessun clamore. Eppure, mentre il treno attraversava campagne chiare, Giovanna sentì sulla pelle quella stessa corrente d’aria del viaggio, l’eco di un gioco trasformato in arte dell’attenzione. Lì capì con esattezza che cos’era diventato il loro patto: un modo di stare nel mondo con una dignità tenera, erotica nel senso più ampio e luminoso.
L’onda lunga
Il brano finito piacque al festival. Lo programmarono in un ascolto all’aperto, una sera di settembre. La gente sedeva su sedie pieghevoli; qualcuno chiudeva gli occhi, qualcuno teneva tra le mani un libro, qualcuno intrecciava le dita alle ginocchia. Quando la traccia si concluse, scese un silenzio nitido. Poi applausi non rumorosi, ma caldi.
Una ragazza si avvicinò a Giovanna. «Io ho sempre pensato che la fantasia fosse qualcosa di rubato. Oggi ho capito che può essere anche qualcosa di donato, con misura.»
Giovanna sorrise. «È quello che speriamo: far pace con l’immaginazione. Dare alla libertà la forma di un invito, non di un assalto.»
Quella notte, tornando a casa in bicicletta, Cecilia disse: «Ti ricordi quanto ridevamo a Nizza? Mi sembra passato un secolo e invece è il nostro ieri a cui abbiamo messo musica.»
«E respiro» aggiunse Giovanna. «Respiro e confini.»
Una lettera a se stesse
Qualche giorno dopo, nella quiete di un mattino lento, Giovanna scrisse una lettera che non spedì. La lasciò tra le pagine di un libro. Diceva così:
«Cara me, ti prometto che quando risponderai a una chiamata al Telefono Erotico non dimenticherai che sei una persona prima che una voce. Ti prometto che porterai nel tuo mestiere il vento dei binari, l’odore della lavanda, l’ironia a basso volume di Cecilia, la pazienza di Luigi. Ti prometto che se qualcuno confonderà la fantasia con il possesso, tu saprai tracciare la linea con gesso bianco e sorriderai, indicando l’ingresso giusto. Ti prometto che userai le parole come chiavi gentili e che non dimenticherai mai che l’erotismo migliore è una mano nella notte che chiede: posso?»
Ripose la lettera, bevve un sorso di caffè e si affacciò alla finestra. Sotto, la città cominciava la sua danza. Uomini con borse, donne con sciarpe leggere, biciclette, un cane che trascina il padrone verso il parco. Giovanna inspirò. Sentiva che ciò che avevano creato non era un progetto, non era un evento: era una postura. Una dolce ostinazione a scegliere la grazia.
Epilogo: la festa delle piccole libertà
Per salutare l’autunno, organizzarono un’ultima serata in terrazza. Non c’erano proiettori, solo candele in barattoli di vetro e il suono delle posate che sfiorano i piatti. Ognuno portò un oggetto-libertà nuovo. Vittoria tornò con una cartolina riempita e mai spedita. Il libraio, con un segnalibro fatto a mano. Luigi, con tre bottoni cuciti male su una camicia – «La mia libertà è imparare senza nascondere i punti storti» disse, arrossendo.
Giovanna e Cecilia misero sul tavolo una conchiglia raccolta per caso e un biglietto obliterato due volte. «Ci ricordano che le onde ritornano e i viaggi raddoppiano» spiegò Cecilia.
Prima di spegnere le luci, qualcuno chiese: «Quando rifarete l’audio-storia?»
«Non sappiamo» rispose Giovanna. «Forse quando una nuova brezza ci tirerà la manica. Intanto viviamo come se fossimo sempre un po’ in viaggio: in ascolto, in bilico, in festa discreta.»
E mentre i bicchieri suonavano un brindisi piano, Giovanna sentì spuntare quella gioia che si nasconde tra le lenzuola pulite e i corridoi dei treni, tra i sussurri del Sesso al Telefono fatto con misura e il filo sottile di una Linea Erotica disegnata con matita morbida. Pensò che se l’amore avesse un rumore, assomiglierebbe al ronzio di un tram prima della partenza: una promessa in attesa, pronta a scivolare nella città con la gentilezza di chi chiede permesso.